EPICA E SPIRITO RISORGIMENTALE NEL ROMANZO STORICO
DI MASSIMO D’AZEGLIO
di Aldo G.Jatosti A.I.C.L. /Italia (Abruzzo) “La nazionalità è il fondamento del diritto delle genti”
(Pasquale Stanislao Mancini)
Premessa
L’epigrafe riservata ad un pensiero-cardine del sistema giuridico, che l’Italia deve – grata – a Pasquale Stanislao Mancini, è doverosa per almeno tre motivi: fu conterraneo e contemporaneo di Francesco De Sanctis (nacquero nel medesimo anno: 1817); secondo: fu un grande italiano ed al nuovo Paese dette il codice civile nel 1865 che ancora oggi rivela tutta la sua pregnanza ed attualità (1); terzo: fu al pari di De Sanctis cittadino valoroso e patriota risorgimentale dallo spirito indomito.
Venendo al mio argomento, uno scrittore non dei più noti, Giovan Battista Bazzoni, lombardo, introducendo un proprio libro nel 1829, scrisse che “la storia si può chiamare un grande quadro ove sono tracciati tutti gli avvenimenti, collocati i grandi personaggi […] ma dove la moltitudine è negletta o appena accennata; [invece] il Romanzo storico è una grande lente che si applica ad un punto di quell’immenso quadro”. Ecco, memorizziamo il parallelo con la pittura, ché ci tornerà utile dopo. Intanto fu “utile” a Giuseppe Mazzini, intellettuale sensibile ed attento al contributo che la letteratura poteva dare alla politica da cogliere le potenziali superiorità del romanzo storico sulla storiografia, in quanto essa “fa campo d’osservazione le capitali, non le province né le campagne. Queste trovano l’interprete nel romanzo storico”. Come si vede, anche l’affascinante cospiratore indulge in una terminologia da pittore.
1. IL SECOLO DELLA STORIA
Che accade? Nel secolo XIX, l’Ottocento definito “il secolo della storia”, entra in scena un altro elemento. Accanto al senso della storia si pone quello della nazionalità: ambedue tipicamente romantici (potremmo chiamarli storicismo e patriottismo) sono alle radici di un’altra forma narrativa che si impone piuttosto velocemente a livello europeo. E’ il romanzo storico che si fa spazio accanto al già blasonato romanzo autobiografico o “di confessione”. Tale genere, la cui originaria fortuna è legata all’opera dello scrittore scozzese Walter Scott, è importante, anzi decisamente importante nel nostro discorso perché è la forma con il quale il romanzo tout court riesce a diffondersi e a imporsi anche in Italia. Commenta Francesco De Sanctis: “ Nasceva questa novità dell’idea che lo sviluppo storico non è casuale e non obbedisce a leggi estrinseche, ma che una interna logica lo regola e determina, favorendo il dispiegarsi di una immanente ragione ove libertà e necessità si identificano. Fuori del divenire, il reale e la vita sono inesistenti e impensabili se non in via di astrazione
(1) Il codice elaborato da Mancini contiene, tra gli altri, questo articolo (n.3): “Lo straniero è ammesso a godere degli stessi diritti del cittadino italiano”.
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Verum et factum – prosegue il De Sanctis – convertuntur seu reciprocantur aveva detto Vico. [Per cui] la filosofia e la filologia geminae ortae si congiungono nell’accertamento del vero e nell’inveramento dei fatti, che è il compito proprio della storia(2): implicita la conseguenza che la verità e la ricerca della verità si identificano(3) e la filosofia sempre più viene avvertita come la consapevolezza metodologica della storia”.
2.SPECIFICITA’ DEL ROMANZO STORICO NELLA CRITICA LETTERARIA
In generale, prima della temperie rivoluzionaria si era manifestata una tendenza alla fuga dal reale, dalla quale non è esente il romanzo, nel quale si verifica una sorta di eclissi della realtà storico-sociale contemporanea. Successivamente i motivi patriottico-risorgimentali, le finalità pedagogiche e civili serviranno anche a legittimare e a dare dignità a una forma narrativa, quale il romanzo, che era considerata dalla società letteraria tradizionale e classicista un genere “basso”, di scarso valore (4).
Quello del rapporto stretto tra orientamento ideologico, impegno civile e politico e ricostituzione del quadro storico culturale è un dato abbastanza costante e significativo della storiografia e della critica romantica che investigheranno (soprattutto la critica letteraria) i rapporti tra società e manifestazioni letterarie. Scriverà il Sapegno che “… si desiderava una visione più ampia, organica, concatenata delle vicende rappresentate nel loro svolgimento, nel loro logico e necessario progredire. Tendenze e desideri che tutti, in sostanza, approdavano ad un’esigenza in largo senso storicistica, cui appunto doveva venire incontro il romanticismo, innanzitutto con la sua formula della letteratura come espressione della società […] con quell’ampiezza nuova di panorami e orizzonti…”.
Già Francesco De Sanctis aveva manifestato chiaramente la propria nozione di letteratura ed arte sull’idea di “forma.: è la forma l’essenza del fatto letterario, ma non una forma concepita come astratta e indipendente dai contenuti, bensì una forma strettamente connessa, quasi connaturata al contenuto che deve esprimere. Da questo presupposto derivano, al leggere la sua Storia della letteratura italiana, da un lato la sostanziale incomprensione per l’umanesimo e il rinascimento come fenomeni complessivi e, dall’altro, l’esaltazione di quegli autori in cui l’impegno morale, civile e religioso è tutt’uno con le loro opere e le forme espressive in cui esse si realizzano. Ecco delinearsi lo schema essenziale della Storia: il Medioevo, età di grandi idealità, morali, religiose, di una passionalità intensa e autentica, è un’età positiva che segue il risorgimento della nostra civiltà come nazione dalla decadenza del mondo antico: il tutto culminante nella figura e nell’opera di Dante.
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(2) Il grassetto in corsivo è il mio (NdA).
(3) Idem.
(4) Il Tommaseo, recensendo I Promessi Sposi, dirà che anche il Manzoni, grande autore di inni sacri, odi e tragedie, si era “abbassato” a scrivere un romanzo.
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3. IL ROMANZO STORICO E RISORGIMENTALE IN MASSIMO D’AZEGLIO (1798-1866)
Abbiamo detto che fu Walter Scott a dare il massimo impulso alla diffusione del romanzo storico (5).
In Italia le prime traduzioni scottiane risalgono al 1821-1822. Esse cadono in un periodo in cui da noi è vivace la polemica sul romanzo: da un lato i “tradizionalisti”, che lo giudicano un genere facile, ibrido, volgare (cfr. nota 4), non sottoposto a quel lavorio artistico che è una componente essenziale della “vera” letteratura; dall’altro i romantici, per i quali è il genere che per la sua libertà strutturale, per la rispondenza ai gusti di un vasto pubblico e, perché no?, per la promozione proprio di quel pubblico (il “popolo”) ad un impegno civile e risorgimentale.
Massimo Taparelli dei conti d’Azeglio, torinese, nasce “pittore”. Dopo la laurea conseguita nella propria città, parte per Roma per studiare pittura. Nella città eterna si dà a dipingere quadri storici, paesaggi e tipi. La sua è una pittura sincera, vivace e ad un tempo dolce, talvolta lievemente malinconica, soffusa di una luce pallida. Negli studi migliori, dove il sentimento della natura dissolve la tecnica minuta, la qualità della pennellata e delle campiture è ancora la stessa dei vedutisti del Settecento: Guardi, Canaletto, Bellotto.
Tornato nella città natale dopo dieci anni “romani”, un’escursione alla badia di San Michele gli suggerì l’idea di scrivere una sorta di illustrazione della “Sagra di S.Michele”, come poi fece, con stile togato e letterario.
4. ETTORE FIERAMOSCA OVVERO LA DISFIDA DI BARLETTA
D’Azeglio trovò la sua via dipingendo la “disfida di Barletta”: il Cinquecento, con i suoi splenditi costumi, col fuoco delle passioni , con quel fatto glorioso per gl’italiani, gli consigliò di scrivere un romanzo storico “da esser capito per le vie e per le piazze [e da] mettere un po’ di fuoco in corpo agli italiani”. Come si vede, all’età di circa trent’anni, d’Azeglio rivede – temporaneamente – la propria fisionomia di uomo alieno dalle fughe in avanti. Anzi, per meglio partecipare alla vita ed ai dibattiti del tempo, capisce che deve lasciare un’altra volta Torino e si trasferisce a Milano, dove entra in relazione col gruppo romantico che fa capo al Manzoni (di cui sposerà di lì a poco la figlia Giulia). Lavora con passione al suo progetto. In due anni (1831 – 1833) la DISFIDA DI BARLETTA è pronta e viene pubblicato nella capitale lombarda (1833).
Il romanzo può essere definito un quadro (non a caso!) di solida fattura, di grandi linee, ovvero il romanzo eseguito da un pittore.
Si avvale di tinte fosche, ma anche solari, che vengono distribuite con sapienza e tocchi audaci, che conferiscono all’assieme un potere suggestivo non comune.
Ecco, in estrema sintesi, la trama della vicenda. Il giovane guerriero Ettore Fieramosca, il protagonista, ama Ginevra, che però è sposa non amata di un nobile astigiano, anche lui valente uomo d’armi, al soldo dei francesi.
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(5) Il suo primo romanzo, Waverley, uscì anonimo nel 1814; ad esso seguirono molti altri titoli, ma fu con Ivanohe (1820) che acquistò la fama.
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La giovane, in pratica abbandonata dal marito, cade sotto le grinfie del duca Valentino Borgia, che violentandola ne provoca la morte. Il culmine della tragedia si svolge a Barletta, campo degli opposti schieramenti in guerra, lo spagnolo e il francese. In questa località si svolgerà la sfida tra 13 campioni italiani ed altrettanti francesi. Uno di essi, La Mottc, ha sprezzantemente offeso tutti gli italiani definendoli vili, opportunisti, prezzolati e degni di essere schiavi.
Il principe Prospero Colonna, che combatte al fianco della Spagna, chiede soddisfazione con una sfida cavalleresca.
La penna sciolta dell’Autore si destreggia in ritratti psicologici e profili esistenziali, toccando spesso momenti lirici ed empiti di passione davvero apprezzabili. Egli cambia continuamente punto di osservazione, variando dai paesaggi di un’Italia bella ma offesa e padroneggiata dagli stranieri . Essa, tuttavia sa trovare un moto d’orgoglio nella schietta fierezza di un manipolo di cavalieri, che obbligano i francesi a rimangiarsi sul campo del confronto d’armi gli insulti arrecati all’Italia.
Questo richiamo che d’Azeglio fa ai valori della nazione non è esclusivo del letterato–pittore torinese ma è il Leitmotiv di tutto il Romanticismo risorgimentale e poggia sul concetto di identità nazionale. Emblematiche le parole di Mazzini nel 1845 : “Noi non abbiamo bandiera nostra, non nome politico, non voce tra le Nazioni d’Europa […]. Siamo smembrati in otto Stati, indipendenti l’uno dall’altro [...] ci fanno stranieri gli uni agli altri”. Eppure per lui è fuori di dubbio, anzi è fede incrollabile che una nazione italiana esistesse e che non vi fossero “cinque, quattro, tre Italie ma una Italia”. Ciò, ripetiamo, era patrimonio e convincimento sentito e condiviso da moltissimi personaggi: tutti erano animati da un’unica certezza, anche se il loro sembrava razionalmente nulla più di un sogno, di un’utopia: gli italiani esistevano da sempre e si riconoscevano tali (sia pure a livello di élite) in nome di una lingua comune, della grandezza artistica, storica, scientifica, religiosa, letteraria.
Già i poeti Dante e Petrarca avevano parlato di un Bel Paese ove “il sì suona”. Scriverà Dostoevskij: “Cavour è stato geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro e cosa vedete? L’Italia porta con sé da duemila anni un’idea grandiosa, reale, organica: l’idea di un’unione generale dei popoli del mondo, che fu di Roma […]. E il popolo italiano si sente depositario di un’idea universale e chi non lo sa lo intuisce…”.
Trent’anni dopo l’uscita del romanzo, lo stesso d’Azeglio – e non sarà il solo – si orienterà verso un compito forse altrettanto, se non eroico almeno cruciale: fare gli italiani(6). Attenzione, non si tratta di una contraddizione: gli italiani esistevano già (è il perno del suo romanzo), altrimenti come avrebbero potuto porsi come Nazione? Ma il fatto è che così com’erano non andavano bene e, dunque, dovevano essere rifatti secondo un’idea di progresso, di dovere, di impegno civile, insomma di modernità. L’élite che prima aveva fatto l’Italia, ora doveva impegnarsi a rifare gli italiani.
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(6) Nei suoi Ricordi del 1862-63 pronuncia la frase divenuta poi famosissima: “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”.
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5. LO STILE DI d’AZEGLIO
Ci affidiamo ad alcuni brani del romanzo. Dal capitolo primo, l’incipit (p.5):
“Al cadere d’una bella giornata d’aprile dell’anno 1503 la campana di San Domenico in Barletta sonava gli ultimi tocchi dell’avemaria. Sulla piazza vicina in riva al mare, luogo di ritrovo degli abitanti tranquilli che, nella terricciuole dei climi meridionali specialmente, sogliono sulla sera essere insieme a barattar parole al sereno per riposarsi dalle faccende del giorno, stavano col fine medesimo dispersi in vari gruppi molti soldati spagnuoli ed italiani, alcuni passeggiando, altri fermi, o seduti, od appoggiati alle barche tirate a secco, delle quali era ingombra la spiaggia; e, com’è costume delle soldatesche d’ogni età e d’ogni nazione, il loro contegno era tale che pareva dire: il mondo è nostro”.
E’ facile notare due elementi sugli altri: la visione pittorica, minuziosa, attenta, quasi affettuosa, ammiccante ad ogni particolare. Secondo elemento lo stile, che non può non risentire dell’esempio dell’illustre suocero.
(Dal capitolo decimo nono (p.222), i due brani seguenti. “Ad uguale distanza da Barletta e dal campo francese, dove la pianura accostandosi alle colline comincia ad elevarsi, si stende, fra certi monticelli bassi, un piano di circa trecento passi per ogni verso, formato probabilmente da qualche antica alluvione. Il terreno di minuta ghiaja e di sabbia silicea rassodato dal tempo è sgombro d’arbusti e d’erbe, ed offre alla zampa dei cavalli un andar franco e sicuro. Questo era il luogo scelto pel combattimento[…].
Dalle terre e ville del contorno la curiosità aveva radunata gran folla di contadini e signorotti di campagna, che prima del levar del sole già si trovavano allogati per l’alture circonvicine. Quelli che fra loro tenevano un certo grado sedean coi vecchi e colle donne sull’erba; gli altri, come ragazzi, poveri monelli, s’arrampicavano su per gli alberi, e mostrandosi qua e là fra le foglie facean contrastare col verde il colore de’ visi e de’ panni”.
Ecco, qui si nota la capacità peculiare del romanziere storico: privilegiare il modesto al magnifico, il popolo minuto ai cortei ducali.
Altro aspetto da rilevare: il senso di italianità e insieme, della pietas, e dell’orgoglio, vero, partecipe, di identificarsi con un’infinita schiera di illustri cittadini, anzi concittadini, che fa palpitare il suo cuore e lo spinge, per l’appunto, a scrivere per “mettere un po’ di fuoco in corpo agli italiani”.
Dal capitolo decimottavo (pp. 218-219). “Prospero Colonna armato anch’esso stava un po’ innanzi agli altri, ed aveva a’piedi per inginocchiarsi un ricco cuscino di velluto rosso colla colonna ricamata in argento, recatogli da due paggi che si tenean ritti pochi passi dietro di lui. Uscì la messa: Fra Mariano la diceva, ed i cuori di quelli fra gli spettatori, che eran capaci di sensi generosi ed alti, forse non rimasero indifferenti alla vista di que’ valorosi ed arditi giovani che atterravan innanzi al Dio degli eserciti le fronti solcate dal ferro e dalle fatiche, per domandargli che fosse dato alle loro spade di vincere chi volea trascinar nel fango il nome italiano”.
CONCLUSIONE
Massimo d’Azeglio testimonia che più d’ogni altra forma letteraria, il Romanzo storico ha assolto alla funzione di riflettere la frattura dell’antico ordine delle cose. Testimoniando il sorgere dell’epoca moderna, ha disegnato per noi un nuovo modello di realtà. Ne è risultato un quadro cosi lontano dal mondo dei nostri padri che la loro idea di eroe non è più concepibile come possibilità artistica. Insomma, in prospettiva, all’Odissea di Omero farà riscontro l’Ulisse di Joyce.
Grazie.