“Bell’Italia, amate sponde…”: l’unità d’Italia nelle pagine degli scrittori.
Letteratura, Risorgimento e Meridione nel “mito” di Carlo Pisacane1
Aldo G. Jatosti*
“Il problema più grande è ridare agli uomini un significato spirituale, un’inquietudine spirituale:
non si può più vivere senza poesia, senza calore né amore”
(Antoine de Saint Exupéry)
Introduzione
Il desiderio di approfondire i temi del Risorgimento, abbandonando il quadro dell’ufficialità retorica, mi ha indotto a soffermarmi su Carlo Pisacane, figura confinata ai margini della storiografia ufficiale. Si pensi che neppure Adolfo Omodeo lo nomina nella sua monumentale e fondamentale “Età del Risorgimento Italiano” (del 1931). Eppure l’Omodeo era repubblicano ed azionista… Oppure, proprio per questo, avendo il Pisacane l’etichetta del socialista inconcludente, senza scuola e senza seguito.
Sta di fatto che Pisacane per decenni è stato ricordato per la spedizione di Sapri ed a questa oleografica memoria ha ovviamente giovato l’ode “La spigolatrice di Sapri”, con tanto di ritornello, del pur valoroso Luigi Mercantini. C’è quanto basta per suscitare comunque un puntiglioso desiderio di vederci un po’ più chiaro. Restando nell’ambito ideologico (non dico “partitico”) quale è la giusta collocazione di Carlo Pisacane? Era un mazziniano? un socialista? un anarchico? oppure “soltanto” un eroico quanto visionario “cavaliere di ventura”? (un don Chisciotte, come più d’uno l’ha definito)2. Modestamente, penso abbia ragione Carlo Rosselli, fondatore con altri in Francia del movimento “Giustizia e Libertà”: Carlo Pisacane fu il primo socialista italiano, per più di una ragione: nella prima metà dell’Ottocento, “socialista” era vocabolo polisemico, giacché l’ideologia proletaria si maturava dall’utopia alla scienza, dalla fantasticheria all’azione e – almeno per alcuni anni – comprendeva tanto le visioni vagamente umanitarie ed egalitarie alla Owen e poi il pensiero di Saint-Simon , di Blanc, di Fourier, di Blanqui e di Proudhon, quanto la dottrina scientifica di Marx-Engels. E’ lo stesso Pisacane a richiamarsi continuamente nei propri saggi alle diverse istanze socialiste, alle quali accosta il pensiero degli scrittori più “illuministi” italiani ed a lui molto familiari: Vico, Romagnosi, Pagano, Beccaria, Filangeri. La prima collocazione “ufficiale” nell’area socialista è stata operata dal francese Benoît Malon nell’ultimo ventennio del XIX secolo e questa lettura prosegue anche al tempo dei Fasci Siciliani (1893) quando il “Saggio sulla Rivoluzione” di Pisacane veniva letto come testo ideologico aderente alle aspirazioni alla giustizia sociale ed alle rivendicazioni dei contadini in lotta.
In tempi molto recenti (F. Della Peruta, 1970) Pisacane viene collocato nell’ambito del socialismo risorgimentale italiano perché convinto assertore della necessità di uno stretto nesso tra Risorgimento, questione sociale e rivoluzione di massa, anche se nel suo pensiero è possibile scorgere, dice il Della Peruta, un orientamento anarchicheggiante di chiara derivazione proudhoniana. Giuseppe Ferrari (1811-1876), patriota coevo del Pisacane, uno dei fautori e protagonisti dei moti del 1848 a Milano, in “La rivoluzione e le riforme in Italia”, del 1848, dice: “L’Italia deve uscire dal sonno che l’opprime. Due vie le si offrono: le riforme e la rivoluzione. Le riforme rafforzano l’assolutismo e lo lasciano arbitro delle sorti della Penisola; la rivoluzione spezza il gioco dell’autorità e affida l’avvenire dell’Italia al genio italiano”. Sembrano parole di Carlo Pisacane.
Senza altre divagazioni che mi porterebbero lontano, ritengo di poter asserire sulla scorta delle sue opere sociopolitiche che l’impianto speculativo di Pisacane è la chiara risultante della sua formazione culturale, che può essere definita come il “frutto maturo” sulla secolare pianta del naturalismo rinascimentale italiano (Telesio, Bruno, Campanella); dell’empirismo inglese (Hobbes, Locke); del sensismo materialistico (Condillac); dello storicismo vichiano; dell’Illuminismo francese (Rousseau); del positivismo sociologico (Comte); del socialismo utopistico (Proudhon, soprattutto) e della filosofia risorgimentale italiana. Leggendo questo pensiero “Chiunque mette la mano su di me per governarmi è un usurpatore, un tiranno e lo dichiaro mio nemico…” non si pena molto ad attribuirlo a Carlo Pisacane; invece è di Proudhon!
C’è ancora un aspetto che non mi sembra trascurabile: nella sua Weltanschauung sono presenti tematiche di pensatori di cui Pisacane non aveva letto o addirittura neppure poteva supporre le opere, quali Feuerbach (“L’essenza del cristianesimo”), Stirner (“L’unico e la sua proprietà”). Addirittura si inoltra in temi che saranno cari a Nietzsche trent’anni dopo il 1857, quali la totale rivendicazione all’uomo di ciò che è umano e l’istinto dionisiaco!
1. Brevi cenni biografici e sulle opere
Era nato a Napoli il 22 agosto 1818, da Gennaro - duca di San Giovanni - e da donna Nicoletta Basile de Luna: due casati di antica fedeltà borbonica. Rimasto orfano di padre e in non floride condizioni economiche, viene ammesso alla celebre Nunziatella, il Collegio militare dell’aristocrazia. Nel marzo 1839 è sottotenente (o “alfiere” come allora si diceva) e dopo pochi mesi è già tenente nel Corpo del Genio. Da quel giorno verrà impiegato più in incarichi tecnici (strade ferrate, ponti, strade,…) che “nell’arte della guerra e negli ornati costumi” per i quali era stato addestrato. Il Corso centrale della metropoli partenopea (che oggi si chiama “Vittorio Emanuele”) fu progettato e realizzato dal tenente Pisacane. Che amava costruire anche storie d’amore, sempre con mogli altrui, alle quali dedica appassionate odi che riecheggiano Byron, considerato il poeta-eroe romantico per eccellenza. La prosa verrà dopo, tra qualche anno, dopo essere scampato ad un paio di aggressioni (mariti gelosi), avere aderito alle idee di Mazzini, avere preso per propria compagna per la vita la signora Enrichetta de Lorenzo in Lazzari ed aver lasciato l’esercito borbonico.
Comincia nel 1847 la vita errabonda di Carlo ed Enrichetta: Londra, Parigi, Orano (Legione Straniera), Milano, dove viene arruolato con il grado di capitano e successivamente - dopo una degenza all’ospedale militare di Salò, dove è amorevolmente assistito da Enrichetta - è inquadrato nell’esercito piemontese nei ranghi della “Divisione Lombarda”. Dopo una breve permanenza nel Canton Ticino, nel 1849 si precipita a Roma per la difesa della neonata Repubblica romana, caduta la quale ricomincia la vita da nomadi: Marsiglia, Genova, Ginevra, Losanna, Londra, Lugano, di nuovo in Piemonte e, infine, a Genova, dove la coppia risiede stabilmente dal 1850 al 1857.A Losanna trova perfino il tempo di scrivere il “Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti in Roma, dalla salita della breccia al dì 15 luglio 1849”, pubblicato nello stesso anno. Se il soldato ha riposto la spada, non così il letterato ha fatto con la penna. In pochi mesi scrive (e pubblica) 8 testi:
- “Lettre du chef de l’état-major de l’armée de la République romaine au général en chef de l’armée française en Italie” (che viene edito anche nella traduzione italiana);
- “La guerra italiana. Sulla scienza della guerra. Pensieri”;
- “Poche parole sulla relazione della campagna del 1849 in Sicilia”;
- “Poche parole sulla campagna di Bade”;
- “Relazione storica delle operazioni militari eseguite dalla Repubblica Romana”;
- “Qualche osservazione sulla relazione scritta dal generale Bava nella campagna di Lombardia del 1848” (Si tratta non di Bava-Beccaris, ma di Eugenio Bava, vincitore della battaglia di Goito);
- “La neutralità della Svizzera”;
- “Pensieri sugli eserciti permanenti”.
Queste otto opere - scritte tra il 1848 e il 1850 - furono pubblicate su “L’Italia del popolo”.
Del 1851 è “La guerra combattuta in Italia nel 1848-1849”, di quattro anni dopo le “Lettere di un antico ufficiale napoletano ai suoi commilitoni” (uscite a Losanna), mentre postumi sono i “Saggi storici-politici-militari sull’Italia” (in quattro voluni) ed il “Testamento politico”, pubblicato nel 1858 nel “Journal de débats” di Parigi.
Di Carlo Pisacane, poi, esiste un ricco ed interessante epistolario, prezioso per elementi biografici e storici.
I dolori e le miserie non della Nazione tutta, ma di un piccolo anche se meraviglioso lembo di Campania (che si affaccia sul Golfo di Policastro, dove chi viene per mare dal Nord, doppiato Capo Palinuro, si trova ad essere accolto da Sapri), i dolori e le miserie - dicevo - non furono di sostegno, non si trasformarono in braccia armate e le tre centurie che avrebbero dovuto fomentare la rivoluzione in tutto il Regno delle due Sicilie, massacrate a Sanza, dopo alterne e dolorose vicende trovarono riposo nella Certosa di San Lorenzo a Padula, nella cui cripta ancora oggi c’è l’ossario dei Trecento. “Eran trecento e non voller fuggire”, abbiamo tutti imparato sui banchi di scuola. Preferì farla finita come Marco Giunio Bruto: suicidarsi piuttosto che arrendersi alla fine del sogno della giovinezza. Il suicidio con un colpo di fucile chiudeva definitivamente il libro della vita, delle idee, delle opere e dell’utopia di Carlo Pisacane, ufficiale superiore dello Stato Maggiore nell’Arma del Genio, in congedo. Correva l’anno 1857, due di luglio. Di lì a poco avrebbe compiuto 39 anni.
2. Carlo Pisacane, soldato gentiluomo ed eroe partenopeo
“Se Napoleone prima di partire dall’Elba per sbarcare a Frejus con 50 granatieri avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero disapprovato tale idea. Napoleone aveva il prestigio del suo nome; io porto sulla bandiera quanti affetti e quante speranze ha con sé la rivoluzione italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della nazione italiana”.
Così Carlo Pisacane in “La rivoluzione”, uno dei suoi “Saggi storici-politici-militari sull’Italia” ultimati nel 1855 e pubblicati tra il 1858 e il 1860.
Pisacane lasciò Napoli sia per motivi contingenti (non era più possibile viverci mandando avanti il ménage con Enrichetta: egli era un aristocratico e per giunta ufficiale) sia per amor patrio, intendendo con questo aggettivo l’Italia, che ancora non esisteva ma era nel cuore di tanti italiani, cittadini delle varie realtà geografico-politiche, ma uniti nella divisione dal sentimento rivoluzionario il cui obiettivo era, appunto, trasformare lo Stivale in uno stato unitario, con una sola legge, una sola bandiera, un solo destino, una sola capitale.
Non rinnegò mai le proprie origini ed il proprio giuramento di fedeltà ai tre gigli dei Borbone-Napoli. Mai avrebbe compiuto un’azione disonorevole per un ufficiale di Sua Maestà Ferdinando II, (detto per celia “re Bomba”) se non per la più nobile delle cause: l’unità d’Italia. Non bisogna dimenticare che Pisacane a Sanza, quando fu attaccato da oltre mille civili, dette ai suoi l’ordine di non reagire, preferendo soccombere piuttosto che sparare su gente armata di bastoni e falci. La versione di Luigi Mercantini è fascinosa ma storicamente erronea: nella quinta strofa di “La spigolatrice di Sapri” dice che essi “vollero morir col ferro in mano”. Pisacane e i suoi avevano già vinto lo scontro con le truppe regolari borboniche, al comando del colonnello Ghio, e a sopraffarli furono dei civili, cioè la popolazione che – secondo le previsioni sprovvedute – sarebbe insorta e fatto fronte comune con i “liberatori” che venivano dal mare.
Indugio sull’episodio per due motivi:
- Pisacane vi trovò la morte, e non fu perdita di poco conto;
- ho parlato di utopia: ecco, la disastrosa conclusione della spedizione la dice lunga sull’incapacità dei mazziniani di dare vita ad un movimento insurrezionale su vasta scala: una cosa è cospirare, altra è far scoppiare una rivoluzione, che nell’ambito della teoria politica è azione mirante a introdurre nell’organizzazione sociale - attraverso il mutamento brusco e violento del sistema di governo - profonde modificazioni sulla distribuzione della ricchezza, del potere e del prestigio sociale a favore di alcuni settori della società ed a scapito di altri. Ora, nonostante l’eterogeneità dell’ispirazione ideologica delle rivoluzioni dell’età moderna e la diversità delle situazioni in cui sono avvenute, è possibile individuare delle uniformità: per esempio una guerra, un regime conservatore o dispotico che nega diritti elementari di status a classi sociali emergenti, o “last, but not least”, la lotta per l’indipendenza nazionale. C’è un’osservazione di Tocqueville (all’incirca coetaneo di Pisacane: morì nel 1859) che mi sembra interessante e pertinente: in genere i rivoluzionari non sono i più poveri e sfruttati in assoluto ma appartengono a strati sociali ai quali non manca né il prestigio né il censo, ai quali - però - la situazione esistente nega prospettive morali, ideali e sentimentali.
Ora, in quello che si chiama “Risorgimento” italiano, si fronteggiarono due tendenze: una “democratica” o radical-repubblicana-azionista (Mazzini, Garibaldi, lo stesso Pisacane); l’altra, “moderata” o “papista” o monarchica (Cavour, Gioberti, Rosmini).
Sempre procedendo per evidenti e alquanto azzardate esemplificazioni, gli uni volevano un’Italia repubblicana e con grande influenza degli strati popolari, mentre gli altri vedevano più realisticamente l’Italia unificata senza stravolgimenti sotto l’egida di Casa Savoia o del Papa.
I repubblicani/azionisti/radical-socialisti erano o borghesi o aristocratici e poco si intendevano di popolo e rivoluzione. Da qui una serie di insuccessi, tra i quali quello della spedizione di Carlo Pisacane, che anche consapevole (e lo aveva criticato apertamente) che il Mazzini non riusciva a operare la saldatura fra masse popolari ed un’effettiva rivoluzione in tutta l’Italia, tuttavia - nella speranza di precedere la convergenza in atto verso il Piemonte di Cavour - si riaccostò al Mazzini onde preparare un moto insurrezionale su vasta scala, come se fossero accaduti eventi tali da cambiare radicalmente la situazione in senso democratico e non si venisse piuttosto dai cocenti insuccessi di Roma e Venezia, con tante belle anime immolatesi ad un’idea tanto nobile quanto - per i tempi e le circostanze - utopica.
Il bel giovine “dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro”, seguìto dall’eroica Enrichetta come Garibaldi ed Anita, si gettò con irruente entusiasmo nella nuova avventura libertaria, basandosi anche sulle assicurazioni che gli faceva pervenire dalla Campania Nicola Mignogna, capo di una organizzazione cospirativa. Il 25 giugno 1857 s’imbarcò sul postale “Cagliari” con una ventina di compagni. Impadronitosi della nave, fece rotta su Ponza, dove raccolse più di trecento tra reclusi politici e militari confinati sull’isola, per poi proseguire fino a Sapri. La rivoluzione finì in un massacro. La “gente buona e ignorante”, come l’aveva vagheggiata e descritta lui stesso nel “Saggio sulla rivoluzione…”, il 2 luglio 1857 si abbandonò a lunghi festeggiamenti per l’eccidio di quel manipolo di “socialisti inceppati e galerati”. Mazzini, Pisacane, Nicotera e Fanelli non erano parenti neppure lontani di Rospesbierre, Marat e Danton né antenati di Vladimir Ilijc Lenin.
3. Il pensatore e il letterato
Fin qui l’uomo, il politico, il soldato e il rivoluzionario: ora vediamo da presso il letterato. Desidero iniziare… dalla fine: il suo “Testamento politico”, pubblicato - come detto - un anno dopo il suicidio dal parigino “Journal de débats”: “Io sono persuaso che, se l’impresa riesce, otterrò gli applausi generali: se soccombo, il pubblico mi biasimerà”.
Quale “pubblico”? Se Pisacane intendeva “opinione pubblica”, allora non va trascurato il fatto che in quel periodo i giornali che si pubblicavano in Italia avevano scarsissima tiratura (cioè venivano acquistati, con molta circospezione, solo dai “soliti noti”, cioè uomini della classe colta), la distribuzione avveniva solo nell’ambito cittadino e nella sede del giornale, al massimo in provincia ed inoltre su una decina di testate (che, oltre tutto, avevano in genere vita breve) almeno i due terzi erano “sirene” del Piemonte - come il “Risorgimento” - di intonazione moderata, molto moderata; altri erano niente più che “Gazzette ufficiali” dei vari governi - come a Milano “La Gazzetta” - e, comunque, avversi alle idee democratiche. Non sembri paradossale che la maggior parte dei giornali patriottici videro la luce a Napoli, sia pure per breve tempo. Tra questi “Il Nazionale”, diretto da Silvio Spaventa, “Il Tempo”, di Carlo Troya e Ruggero Bonghi, “La Libertà”, di Antonio Scialoja mentre a Palermo usciva “L’Apostolato” di Francesco Crispi.
La risonanza pubblica sulla quale contava Pisacane è soltanto aleatoria. Ma ciò nulla toglie alla sua prosa, che anzi vola alto, nutrendosi di metafore, similitudini, anacoluti e però è ricca di figure scolpite, di immagini scultoree. E passa dal pensiero lieve, con il concetto quasi sfiorato - volutamente - per sembrare modesto, all’iperbole, all’invettiva, al sarcasmo, all’interrogativo indiretto: “Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento [in realtà era in qualche misura proprio questo!]… mi accuseranno [notare l’anacoluto] di non essere riuscito per mancanza di spirito, di cuore, di energia…”. In realtà il “nostro Byron” (l’azzardato paragone è tutto mio!) provoca notoriamente, irrita gli avversari, anzi li sfida.
Aveva manifestato inclinazione letteraria fin dalla fanciullezza: se non avesse perso il padre in tenera età avrebbe abbracciato le Lettere con entusiasmo e con la determinazione di chi sa di seguire la propria stella cometa. Entusiasmo che riversò nell’amor patrio, nell’ideale nazionale. Con altri intellettuali avvertiva, “sentiva” il problema di trasmettere l’impegno, la propria civica serietà ad un paese che si mostrava ostile, oltre che storicamente “sbagliato”. Il coetaneo e corregionale Francesco De Sanctis, dapprima nei “Saggi critici” (1866), poi nella “Storia della letteratura italiana” (1870-71), la vera storia civile dell’Italia, si faceva carico dello stesso impegno civile perché era diventato per uomini della loro tempra una questione cruciale: o si facevano gli italiani moderni e civilmente impegnati o si perdeva la scommessa e allora si era tutti sconfitti. Attraverso le pagine della “Storia” di De Sanctis e del “Saggio” di Pisacane vengono fuori prepotentemente traguardi e obiettivi dell’impegno civile chiesto agli italiani (a “certi” italiani) e proposto ad essi come dovere etico dell’élite risorgimentale in relazione alle deficienze etiche del Paese. Dicevano senza infingimenti che la storia italiana degli ultimi secoli è una storia di sconfitte e di occasioni mancate. Arrivati benissimo al Rinascimento, gli italiani avevano poi perso il treno. Ecco perché Pisacane e De Sanctis fanno intendere che i veri italiani sono quelli “contro”: contro la maggioranza moderata, contro la Chiesa, contro la storia del Paese, nel passato e nel presente, contro l’immobilismo, la stagnazione, in una parola: i “conservatori”, cioè coloro che formano “il corteggio della tirannide (…) impongono pesanti tasse non ai ricchi ma ai poveri! (…) Ed essendo elettori quelli che posseggono3, i nullatenenti sono fuori la legge, in una condizione peggiore degli schiavi”.
Un altro Leitmotiv del corpus pisacaniano è la libertà, che nel “Saggio” è definita così: “… oltre ad essere un sentimento innato nell’uomo, è nel contempo esigenza di nazionalità e di uguaglianza sociale: è falso sostenere che l’uomo, associandosi agli altri, debba sacrificare necessariamente la propria libertà individuale (…). In altri termini, una società giusta è garanzia anche di libertà (dove viene impedito) che qualcuno sfrutti il lavoro di un altro”.
Carlo Pisacane procede con la sua prosa e la sua capacità evocativa a sostenere con passione le proprie tesi. “In lui il Romanticismo, nei limiti e nelle caratteristiche della ‘versione italiana’, si articolò come impegno teorico e come prassi artistica, l’una e l’altra distinte nei loro specifici caratteri, ma pure tra loro congiunte da non occasionali o marginali corrispondenze”4. Scandisce parole e concetti, come in questo caso: “Tutti gli individui hanno l’obbligo morale e civico di cooperare per l’utile collettivo e ciascuno secondo le proprie capacità. La società, da parte sua, dovrebbe porre a disposizione di ognuno dei suoi membri (…) tutti i mezzi che ella possiede, onde facilitare lo sviluppo delle loro facoltà fisiche e morali e porlo in grado di riconoscere e utilizzare le proprie attitudini”. Sembra di leggere - se non nella lettera - certamente nello spirito la nostra Costituzione… Ed io ci leggo pure uno sconfinato amor di patria, da cui lo sconforto, il dolore, lo sdegno nel constatarne lo stato di disgregamento. “Gli italiani”, dice, “sono unitari: tali furono gli antichi ed una tale aspirazione fra moderni comincia da Dante”. Corre quasi d’obbligo la citazione di Farinata degli Uberti, che interpella “sdegnoso” Dante, ma subito mitiga l’alterigia solo a riconoscere dalla “loquela” un concittadino “di quella nobil patria natio”. Come si vede, anche Pisacane vede l’offuscamento, l’appannamento di certi valori che prosegue ancor oggi, al punto che viene di pensare che il termine “valore” andrebbe taciuto, non più invocato, tanto è frainteso ed abusato.
Conclusione
Con un cenno al suicidio ed ispirandosi a Dione Cassio, Pisacane scrive: “Marco Bruto, vicino a morte esclamò: Oh virtù, tu non sei che un nome! Io ti seguivo come se fossi cosa, ma tu sottostavi alla fortuna”. E subito dopo aggiunge: “Ingannavasi Bruto, la virtù non sottostava alla fortuna, ma ai tempi (…); alle virtù di Bruto erano successe le virtù de’ Cesari, a cui la società destinava il trionfo”.
Trionfo che non arrise né a lui, né ai “riformatori” che egli propugnava. La stessa presa di Roma del 20 settembre 1870, da tante parti sospirata come il coronamento di un’unità del Paese (ripeto: non come Pisacane lo aveva vagheggiato, giacché se proprio doveva essere una corona a fare l’unità d’Italia, molto più naturale appariva quella dei Borbone-Napoli)5 provocò invece non solo l’inimicizia della Chiesa, ma anche - dal 1874 - la sostanziale ritirata dei cattolici dalle pubbliche istituzioni nazionali, a cominciare dal Parlamento. Anche in questo era stato profetico: non era il caso di parlare di “progresso” in certe prospettive. “I miracoli del vantato progresso”, scrisse sulla scia di Rousseau, “nascondono il continuo peggioramento…”. Eppure non si accomiata con un messaggio di tristezza. Tra le ultime parole6 restano scolpite queste: “Ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell’animo di questi cari e generosi amici, che mi hanno recato il loro concorso ed hanno diviso i battiti del mio cuore e le mie speranze”.
A mo’ di epitaffio, Mazzini disse: “Io immagino gli ultimi suoi pensieri. Cadde mentre credeva incamminarsi verso la vittoria (…). Io credo, io sono certo che se egli avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, sarebbe stato: tentate, tentate sempre, sino alla vittoria”. Moriva così il rivoluzionario puro, nel quale tanto l’anarchia quanto il socialismo, tanto il libertarismo quanto il collettivismo, tanto l’idealismo quanto il materialismo vengono romanticamente bruciati per il Risorgimento dell’ Italia al fuoco vivo di una fede illimitata nella dignità dell’uomo.
Amo immaginare che Edmond Rostand, pubblicando nel 1897 (a quarant’anni dalla morte di Pisacane) il suo capolavoro “Cirano de Bergerac” si sia ispirato per l’uscita dal palcoscenico della vita del celebre moschettiere al nostro eroe: l’uno e l’altro poterono orgogliosamente sfidare il mondo gridando di avere conservato “immacolata” la piuma bianca del proprio cappello di soldati.
Palazzo Valentini, Roma, 14 ottobre 2010
* A.I.C.L., Associazione Internazionale Critici Letterari
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1. A. Capone, Giovanni Nicòtera e il “mito” di Sapri, Salerno, 1967.
2. Tra costoro, George Woodcock.
3. Fino al 1912 erano elettori i cittadini maschi con il duplice requisito del reddito e dell’istruzione. Giolitti, nel 1912, eliminò queste limitazioni ma non quelle del sesso, per cui le donne restavano escluse dal voto. Questo “monstrum” fu eliminato nel 1948 con la Costituzione dello Stato repubblicano.
4. Storia della Letteratura italiana, Il primo Ottocento, diretta da E. Malato, vol. XIII, 562.
5. C. Pisacane, Cenno storico…, Milano, 1957, passim.
6. Idem, Testamento politico.
SOMMARIO
Introduzione pag. 1
1. Brevi cenni biografici e sulle opere pag. 2
2. Carlo Pisacane, soldato gentiluomo ed eroe partenopeo pag. 3
3. Il pensatore e il letterato pag. 4
Conclusione pag. 6