SABINO CARONIA
J.K. Stefánsson PARADISO E INFERNO
Ha un titolo che fa pensare ai “novissimi” questo Paradiso e Inferno, racconto di gente di mare dell’islandese Jón Kalman Stefánsson (Iperborea, 2011, € 16,00).
Protagonista è un mondo desolato, assolutamente inospitale per l’uomo – non a caso Leopardi aveva pensato già un secolo e mezzo fa all’Islanda come esempio di una natura inospitale nel suo Dialogo della Natura e di un Islandese -, un mondo dove l’uomo è abituato a vivere una vita sempre precaria e a convivere con la morte.
Non è un caso che a raccontare la vicenda siano chiamate delle voci fuori campo che sono voci di morti, morti che è come se ancora facessero parte delle vicende di questa terra, le condividessero: «L’inferno è non sapere se siamo vivi o morti», dicono, «… siamo morti e non è successo niente. Abbiamo chiuso gli occhi e li abbiamo riaperti esattamente nello stesso posto […] Eccoci qui, sulla terra dei vivi, inquieti e senza pace […] Tutto quello che possiamo fare… è chiedere incessamente: perché siamo qui? E gli altri dove sono? Che cosa può attenuare questo rovello? Dov’è Dio? Continuiamo a interrogarci ma non sembra esistere alcuna risposta, probabilmente le risposte le hanno solo i preti, i politici e i pubblicitari […] L’inferno è essere morti e rendersi conto che non hai avuto cura della vita quando ne avevi la possibilità».
Questa ricerca disperata del senso della vita è in tutto il libro e nei suoi personaggi e forse la risposta al senso della vita «è implicita nella domanda, nello stupore che cela in sé».
Certo, quale che sia il senso della vita – forse lo “stupore che cela in sé” –, il messaggio del libro è comunque che quella che conta è la scelta di vivere.
Il ragazzo, che potremmo definire il protagonista, il filo rosso del racconto – un racconto che è piuttosto corale e ci può far pensare ai Malavoglia – non ha un nome, è appunto “il ragazzo”. Qui non si rovescia la sua barca - come accade alla barca dei Malavoglia e a tante altre abbiamo notizia nel corso del racconto, a cominciare da quella dove era imbarcato suo padre – ma muore il suo migliore amico, l’unico amico. L’amicizia in un mondo desolato, in mezzo a una natura così prepotente che annulla l’uomo, è tutto. E il ragazzo si ripromette di morire anche lui, di seguire il suo amico, sentendo il continuare a vivere come un tradimento, non prima però di avere portato a termine delle incombenze, andare al paese da cui veniva l’amico, riportare a chi glielo aveva prestato quel libro, Il Paradiso perduto di Milton, che lui ha amato tanto, da avergli procurato la morte, perché per rileggerlo un’ultima volta prima di partire aveva dimenticato di prendere la cerata, senza la quale è morto di freddo. Ma è proprio nell’assolvimento di questo compito che il ragazzo si ritroverà in mezzo agli uomini, si troverà a parlare di lui e capirà che il vero tradimento non sarebbe vivere ma non parlarne. Ricordare una persona, raccontarla con le parole giuste, può significare farla rivivere, ed è l’unico dono che abbiamo e che possiamo offrire ai nostri morti.
Cos’ il ragazzo racconta la storia del suo amico Bàrður e della sua morte agli altri che gliel’hanno chiesto, e ora sono tutti ammutoliti, assorti nel suoi ricordo: «Forse il senso di quel racconto era proprio resuscitare Bàrður dalla morte, fare irruzione nel regno dei morti armato di parole. Le parole possono avere il potere dei troll e possono abbattere gli dei, possono salvare la vita e annientarla […] Le parole sono tutto ciò che il ragazzo possiede».
Il tema centrale del racconto è quello della morte, una morte sentita come cancellazione, venire meno di tutto ciò che è una persona ed è ad essa legato.
Leggiamo: «Non esiste quasi niente di più bello del mare nelle giornate serene o nelle notti terse, quando anche lui sogna e la luna è il suo sogno. Ma il mare non è per niente bello e lo odiamo più di qualsiasi altra cosa quando le onde si alzano anche di dieci metri sopra la barca, quando i frangenti la travolgono e il mare ci beve come miseri cuccioli, e poco importa quanto dimeniamo le braccia, quanto invochiamo Dio e Gesù, quello ci beve come miseri cuccioli. E lì tutti sono uguali. Le carogne e i giusti, i colossi e i mingherlini, i felici e gli afflitti. Qualche grido, qualche frenetico agitarsi di braccia e poi è come se non fossimo mai esistiti, il corpo inerte cola a picco, il sangue si raffredda, i ricordi si cancellano, i pesci vengono a sfregare il muso contro quelle labbra che, ancora ieri baciate, pronunciavano parole essenziali, sfiorano le spalle che portavano il figlioletto a cavalcioni e gli occhi che non vedono più nulla, posati sul fondo del mare». E, poco più avanti: «La gente vive, ha il suo momento, i suoi baci, le risate, gli abbracci, le sue parole dolci, le sue gioie e i suoi dolori, ogni vita è un universo che poi crolla su se stesso e non lascia niente dietro di sé se non pochi oggetti resi preziosi e attraenti dalla scomparsa del proprietario, diventano importanti, a volte sacri, come se un frammento di quell’esistenza che è sparita si fosse trasferita sulla tazza del caffè, sulla sega, sulla spazzola, sulla sciarpa. Ma tutto alla fine svanisce, i ricordi si cancellano e tutto muore, il mare lo inghiotte e non lo restituisce più. Dove sono i tuoi occhi che mi rendevano bella, le mani che solleticavano i bambini, la voce che teneva lontano il buio?».
Nonostante tutto, il libro è un inno alla vita, che è l’unica cosa che abbiamo, insieme alle parole, quelle parole di cui forse, si dice a un certo punto, «non abbiamo bisogno per sopravvivere, ne abbiamo bisogno per vivere».
Leggiamo: «Ci sono poesie che ti portano in luoghi dove le parole non arrivano, e neanche i pensieri, ti portano dritte all’essenza stessa, la vita si ferma per lo spazio di un istante e diventa bella, limpida di rimpianti e di felicità. Poesie che ti cambiano la giornata, la notte, la vita. Poesie che ti portano a dimenticare, a dimenticare la tristezza, la disperazione, ti dimentichi la cerata […] e sei morto». E ancora: «…forse l’inferno è una biblioteca, e tu un cieco…» pensa accarezzando le coste dei libri il padrone dei quattrocento volumi che prestava i libri a Barður ed ora è diventato cieco.
Paradiso e inferno: «La realtà […] ha in suo potere i vivi come i morti ed è quindi una questione di salute mentale, di inferno o paradiso, rendere la realtà un posto migliore».
È questa realtà, non ci stanchiamo di ripetere, il nostro unico bene, la nostra unica ricchezza. Una citazione mi sembra mettere in luce bene questa concezione vorrei dire religiosa della vita che è presente in tutto il libro: «Esistere per ottant’anni eppure non vivere, si potrebbe anche chiamare tradimento verso la vita, perché ci sono altri che nascono e muoiono prima di avere il tempo di balbettare le prime parole, prendono le coliche, un brutto raffreddore e Jón il falegname deve costruuire una piccola bara da morto intorno a una vita che non è mai stata, se non per qualche notte insonne, occhi disarmanti e lacrime così piccole che sembravano miracoli. Esseri che sono rimasti al mondo poco più della rugiada. Svaniti al nostro risveglio, e tutto quello che possiamo fare è sperare nel profondo di noi stessi, dove batte il cuore e si radicano i sogni, che nessuna vita sia stata invano, sia senza uno scopo».